A cura di: Marco Pasquini
Lettere e biciclette
In principio fu il Giro (1909). Si, ma chi l’ha raccontato? Chi ne ha tratteggiato i contorni epici?
Il primo è stato sicuramente il direttore della Gazzetta, e uno dei coordinatori della corsa, Emilio Camillo Costamagna che, come il suo omologo francese Henri Desgrange (direttore del giornale Auto e Patron del Tour de France), alimentò il mito dei forzati della strada. Quelle pagine cariche di pathos, firmate col diminutivo di Magno, raccontavano le traversie e le glorie dei corridori lungo le strade della nostra Italia. Nel 1910 entra in Gazzetta Emilio Colombo che assumerà la direzione del giornale nel 1921 (e la dirigerà fino al 1936). Con Colombo, a seguito anche del periodo storico, in cui la metafora della guerra, dell’uomo contro l’avversità e il primeggiare sopra ogni cosa assurgerà a paradigma, si introduce e si alimenta il dualismo tra i grandi campioni: Girardengo contro Binda, Binda contro Guerra.


Nel 1926 il Corriere della Sera ha la felice intuizione di inviare Orio Vergani al Giro. Uno scrittore al seguito della corsa, un altro punto vista, privilegiato e diverso rispetto al cronista sportivo. Vergani seguirà il Giro e le corse in bicicletta fino al 1960, a parte una breve interruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si apre una nuova strada, un nuovo modo di raccontare l’Italia agli italiani. Ma Vergani non fu l’unico letterato al seguito del Giro prima del secondo conflitto mondiale. All’edizione del 1932 partecipa, in un modo del tutto suo, Achille Campanile, scrittore ironico e fantasioso. Campanile s’inventa la partecipazione alla corsa del suo domestico Battista come ciclista e ne farà una cronaca surreale. Racconta per esempio come nella tappa di Salò, in saluto ai ciclisti che stavano passando di lì, il Vate Gabriele D’Annunzio sparò delle cannonate dalla nave Puglia, che aveva fatto ricostruire al Vittoriale, e questi si dileguarono impauriti. Nel 1935 alla carta stampata si affianca la radio, ma i giornali mantengono ancora il loro primato narrativo.
Dopo la guerra
La Seconda Guerra Mondiale segna uno spartiacque anche nella cronaca sportiva ciclistica. Il Duello, atteso oltre cinque anni dopo la vittoria di Coppi nel 1940, attira l’attenzione dei lettori e va per questo raccontato al meglio. L’immediato dopoguerra, i forti contrasti sociali e la trasformazione in atto nella Nazione hanno bisogno dei migliori prosatori per raccontare quella corsa che attrae gli italiani sulle strade. Un’Italia illuminata attraverso la gara più amata.
Nel 1946 Bartali vince il Giro e nell’edizione dell’anno seguente i giornali inviano lo scrittore Vasco Pratolini e il poeta Alfonso Gatto, mentre il Corriere della Sera sostituisce per un paio di anni Vergani col volitivo Indro Montanelli. Pratolini segue con Gatto la corsa del 1947 sull’auto de L’Unità. Mentre il primo partecipa emotivamente alla corsa, inventando la metafora del circo (Barnum) per rappresentare la festa e la vivacità della carovana, ritrovando i suoi ricordi di ragazzo, Gatto vive questo momento da un punto di vista quasi onirico, dal quale si risveglierà solo all’arrivo di Milano. Il poeta campano fin dall’inizio dichiara di non saper andare in bicicletta così, quando lo stesso Coppi si offre di insegnargli, timidamente accetta ma i tentativi saranno vani. Lo sconsolato Gatto commenterà:
«Per un attimo ho provato la dolcezza del volo, sapendo di cadere ed ero già caduto nella polvere come un guerriero antico. […] Cadrò, cadrò sempre fino all’ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare».
Ma a quel Giro è presente anche Indro Montanelli, il cui direttore ha intimato di non parlare di politica. Montanelli accetta, ma non resiste. Nella sua descrizione di Bartali in corsa usa la similitudine e accosta il corridore a De Gasperi. La sconfitta di Bartali attrae molto di più gli scrittori del vittorioso Coppi. Lo sconfitto con dignità, che si piega ma non si spezza è amato dalla gente. Nel 1948 Pratolini non si presenta al Giro (tornerà nel 1955) e tra le penne di colore appare un giovane Enzo Biagi. Gatto e Montanelli sono ormai dei veterani. Entrambi hanno aspettato un anno per tornare alla festa del ciclismo e assaporare quelle emozioni che la corsa sa dare. Un Bartali, apparentemente in declino, è sempre ben voluto, ma è ancora Coppi che spicca il volo. Solo le spinte a Magni sulla salita del Pordoi gli scippano la vittoria, nonostante la penalizzazione di 2 minuti, e per protesta Coppi e la Bianchi si ritirano dalla corsa. Anche Gatto, amareggiato, non arriverà a Milano; si fermerà due giorni prima. Montanelli, pur col suo senso critico, non riesce a digerire la conclusione della corsa e rimpiange il ciclismo eroico che l’ha fatto innamorare.


Di Biagi si ricorderà invece Bartali, quando al termine del Tour trionfale del 1948, dopo aver distratto l’Italia in tensione per l’attentato a Togliatti, si rifarà del commento troppo presto lapidario del giovane giornalista che al Giro l’aveva definito vecchio ed ormai in declino.
Il 1949 è l’anno in cui il Corriere della Sera, dopo l’esperienza di Montanelli e prima di rinviare Vergani, si affida alla penna di Dino Buzzati. Nelle sue cronache fanno capolino le amate montagne e i boschi (riprendendo Barnabo delle Montagne) e l’attesa prima della battaglia (Il deserto dei tartari). Le Dolomiti sono i monti pallidi e silenti giurati che dovrebbero emettere il giudizio. Ma lo scontro ciclistico avviene sulle Alpi dove Buzzati accosta con illuminazione il giovane Coppi ad Achille e il vecchio Bartali ad Ettore.
Sarà questo anche il Giro in cui Mario Ferretti, voce ufficiale alla radio, conia la famosa frase: “Un uomo solo al comando; la sua maglia è biancoceleste; il suo nome: Fausto Coppi”.
Gli anni del boom
Passano gli anni e i tempi stanno cambiando. L’Italia è repubblicana e proiettata verso la completa rinascita. Nel 1954 si affaccia la televisione, ma non è ancora tempo di abbandonare il pathos dei racconti sul giornale. Nell’edizione del 1955 torna in carovana Vasco Pratolini, più disincantato rispetto alla sua prima esperienza nel 1947, ma soprattutto si affaccia Anna Maria Ortese, la prima corrispondente donna (per il settimanale L’Europeo). La generazione di Coppi e Magni è al tramonto, una nuova si sta avviando a sostituirla. Tra i nuovi il toscano Nencini si mostra già pronto ad indossare la maglia rosa. Solo l’attacco congiunto dei vecchi campioni gli nega quella vittoria. Pratolini, che ha ospitato la collega sulla sua macchina, nascondendola sotto un basco ed un paio di occhiali scuri, e la Ortese ne narrano l’infinita fuga e la durezza della corsa che spezza la resistenza del giovane puledro. Altre penne, nel frattempo, si sono affacciate sulle testate dei giornali. Gianni Brera, direttore della Gazzetta nel 1949, impreziosisce la cronaca con i suoi neologismi; a lui dobbiamo l’immagine della macchina del Commissario Tecnico Alfredo Binda come un’ammiraglia (Tour 1949). Suo degno sodale Mario Fossati e poi l’erede Gianni Mura che fino ai giorni nostri hanno raccontato il Giro (e il Tour) con incanto e cronaca che si fa narrativa. I loro allievi e colleghi più giovani, a cui dobbiamo le cronache che stiamo leggendo su Senzagiro, hanno raccolto un’eredità ormai quasi centenaria, raccontare la corsa oltre la corsa.
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